Ieri il convegno di Prc e Antigone contro la massima pena. Parla il responsabile solidarietà sociale Caritas
Davide Varì
«L’ergastolo è una pena inumana, che toglie all’uomo qualsiasi speranza e che contrasta con il principio costituzionale dell’umanità e della finalità della pena». Questa la premessa del confronto organizzato ieri da rifondazione comunista e da Antigone e dal titolo inequivocabile: «Per l’abolizione dell’ergastolo». Tanti gli ospiti, a partire dagli organizzatori, Arturo Salerni e Imma Barbarossa – rispettivamente responsabile carceri e responsabile area nuovi diritti del Prc -, poi Gennaro Santoro, Paolo Cento, Domenico Gallo, Patrizio Gonnella. Tutti in prima fila per ristabilire un principio che dovrebbe essere dato per scontato: la persona è il fine ultimo del nostro ordinamento e l’ergastolo priva il condannato proprio del suo status di persona. Una pena quella dell’ergastolo che già nel 1764 Cesare Beccaria definiva come «pena di schiavitù perpetua più dolorosa e crudele della pena di morte in quanto non concentrata in un momento ma estesa per tutta la vita». Oltre a tutto questo la consapevolezza, la certezza che la gravità della pena, oltre un certo limite, non ha nessuna efficacia preventiva. Un’efficacia che è invece assicurata dal restringimento delle aree di impunità e dalla rapidità del processo.
E’ per questo che l’impegno di rifondazione, oltre all’abolizione dell’ergastolo, si orienta verso la riforma del codice penale in larga parte ancora imbrigliato entro le secche del Codice Rocco del 1930. Molto tempo è passato da allora. E molte cose sono cambiante. Un primo importante passo è stato fatto attraverso la costituzione ed i lavori della Commissione di riforma del codice penale che, grazie al prezioso lavoro di Giuliano Pisapia, ha disegnato un nuovo codice in cui la galera diventi extrema ratio per quei reati più gravi. Un modo per non vanificare l’indulto e per non tornare a parlare di nuovo sovraffollamento carceri in men che non si dica.
Tra gli ospiti relatori del dibattito di ieri c’era anche Don Andrea La Regina , responsabile solidarietà sociale della Caritas italiana. Un impegno il suo che affronta con passione e dedizione.
Don Andrea, perchè “mai più ergastolo”?
Io credo che ci siano motivazioni di varia natura. In primo luogo l’attenzione che dobbiamo alla persona. La nostra costituzione al riguardo parla chiaro: il rispetto della persona umana è al centro di tutto ed in questo quadro è impensabile che esista ancora una pena come l’ergastolo che nega qualsiasi possibilità di vita futura. Un “personalismo” che appunto troviamo anche nella nostra Carta. Ed allora noi dobbiamo ritrovare quello spirito costituente quell’accordo tra culture diverse che ristabilisca il principio della persona non come mezzo ma come fine ultimo.
Senza contare che gli istituti di pena sono ben lontani da quelle politiche di reinserimento che dovrebbero perseguire…
Certo, lo stato delle carceri italiane è noto a tutti. Noi dovremmo avere la consapevolezza che la detenzione dovrebbe servire innanzi tutto a reinserire le persone evitando qualsiasi forma di esclusione. Invece il carcere è diventato un luogo inumano in cui la missione originaria di reinserimento ed educazione è venuta meno.
In che modo si avvia questo percorso di cambiamento?
Io credo che la società dovrebbe fare uno sforzo di riconciliazione. Io non credo che il dolore delle vittime e dei familiari venga rispettato solo se condanniamo i responsabili con pene dure. La società dovrebbe mettere i detenuti ed i responsabili di reati in una condizione di reinserimento attraverso una pena che apra al futuro e che dia una possibilità di futuro a chi ha sbagliato.
Ultimamente i media italiani dipingono il Paese a tinte forti: emergenza criminalità, emergenza immigrazione e così via…
E’ vero, io credo che i media in generale abbiano una responsabilità molto importante. C’è un’emergenza criminalità che non va calcata. In un contesto del genere i media che devono affrontare le questioni in modo non emotivo. Non è un clima securatista che assicura la sicurezza. Queste sono solo scorciatoie che semplificano ma non risolvono i problemi.
E a suo avviso come si risolvono questi problemi?
Io credo che quando lo stato sociale non riesce a dare risposte, allora è molto facile cadere nel tranello del giustizialismo. Mi spiego: quando il nostro sistema di assistenza sociale fallisce, si ha la tentazione di trasformare i problemi sociali in problemi di ordine pubblico, di sicurezza e di giustizia.
E invece?
E invece a questa ondata giustizialista e a questa ondata emotiva bisogna contrapporre l’idea di un diritto penale mite. Pene certe ma brevi. Non possiamo eludere i diritti dei detenuti, della persona detenuta, nè il senso di giustizia delle vittime e la sicurezza dei cittadini. Ma questo non vuol dire accanirsi contro chi ha commesso reato. Noi dobbiamo lavorare sull’opinione pubblica per spiegare che pene lunghe non equivalgono a maggiore sicurezza.